"Il Libro dei Salmi" non è soltanto uno dei libri più grandi su cui l'occhio possa posarsi. È anche un libro le cui parole, abbandonato "il selvatico e il roccioso" del loro luogo d'origine, si sono diffuse in rivoli inesauribili ovunque, mescolandosi alle espressioni più familiari, lasciandosi ripetere da tanti che non sanno neppure di ripeterle. Tradurre questo libro è dunque un risalire le acque del Giordano, attraversare le illuminazioni e i fraintendimenti di secoli. Dei salmi Guido Ceronetti ci offre una versione memorabile, innanzitutto per la tenacia nel mantenere la parola "costantemente nel deserto, in una luce che angaria d'assoluto" e per la capacità di torcere la lingua del bel canto verso la "forza del verbo semitico con la sua visione monotona e dirompente di Dio". E altrettanto memorabile è l'appassionante commento, vero diario di una vita con l'angelo. Un angelo esigente che si presenta sotto forma di versetti, martellanti nella memoria, in attesa di una nuova lettura, sempre più precisa, sempre più intensa. Un angelo che istiga a un continuo spostarsi della tenda nomade del pensiero verso la "misteriosa nicchia" del testo. Alla fine di questa lunga migrazione, compiuto il suo "dovere di alchimista", Ceronetti ci consegna questo "Libro dei Salmi", non più "grande rosa spampanata priva di spine", come nella versione di San Girolamo, ma improbabile fiore del deserto, con un solo consiglio: "Fatevi in casa un pezzo di muro rotto, collocateli là".
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