474 rinviati a giudizio per appartenenza all'organizzazione mafiosa di Cosa Nostra, 360 condanne in primo grado per un totale di 2665 anni di reclusione. Dal febbraio 1986 al dicembre 1987, nell'aula bunker di Palermo, si conclude, dopo un'istruttoria gigantesca guidata dal pool di Caponnetto, Falcone e Borsellino, il più grande dibattimento giudiziario della storia italiana. Ci vorrà qualche anno per la conferma in Cassazione dell'impianto accusatorio e delle sentenze di condanna per i capi. È la prima volta che si processa per un simile reato (è incredibile ma quello di mafia è diventato un reato specifico da appena due anni). Ma il maxiprocesso è non solo il frutto di un grande impegno, è anche, finalmente, la manifestazione di un cambio radicale della prospettiva attraverso la quale lo Stato guarda a un male antico. La mafia non è più un codice culturale primitivo da tollerare o tutt'al più da deprecare. È un'articolata organizzazione politico-criminale che dalla fine degli anni '70, attraverso stragi intestine, ha promosso un processo di centralizzazione, mostrandosi come una struttura capace di formulare un progetto in senso lato politico. All'opzione terroristica mafiosa lo Stato risponde per la prima volta con un riarmo istituzionale paragonabile a quello verificatosi di fronte al terrorismo degli anni di piombo. Tra polemiche, dibattiti, scontri politici, proteste collettive, la stagione dell'antimafia lascia il segno nella vita morale e politica del nostro Paese.
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