Otto anni dopo Notizie dalla crisi, Cesare Segre torna a pubblicare un volume di saggi letterari. Quella specie di disamoramento per le elaborazioni metodologiche del lavoro critico, che veniva denunciato nel libro precedente, persiste tuttora negli ambienti accademici e non. Tuttavia, e fortunatamente, Segre riprende il filo del discorso interrotto. Con meno implicazioni teoriche (che comunque non mancano) ma con la consueta passione per ogni - anche piccolo - risultato nella comprensione di un testo. Una passione culturale che è nello stesso tempo etica e politica. E non è un caso che il libro parta proprio da una serie di saggi su Kafka, Levi e Gadda centrati sul rapporto fra scrittura e potere. La tensione etica dei saggi di Segre passa sempre da un'idea di verità concentrata o nascosta nelle cose. E il fatto che spesso questa verità non sia pienamente raggiungibile, o che possa mutare nel tempo, non toglie nulla all'obbligo di ricercarla. Questa ricerca si avverte nelle singole letture critiche, ma anche nei saggi piú generali: in quello, per esempio, sull'ermeneutica, in cui si accenna ai danni dell'interpretazione slegata dalla filologia, o in quello sul concetto di canone, a cui viene restituito uno statuto oggettivo oggi assai poco di moda.
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